Lo psicologo Guerreschi (2005) ha stilato tre fasi nel percorso di un atteggiamento da normale a patologico verso il lavoro che può essere d’aiuto a tutte quelle famiglie preoccupate per le ore che un proprio caro dedica alla sua attività lavorativa:
– Fase iniziale: l’individuo inizia a lavorare di nascosto, i suoi pensieri sono spesso rivolti al lavoro. Si dedica a questo anche nelle ore in cui non dovrebbe e le relazioni iniziano a deteriorarsi. In questa fase non sono ancora visibili sintomi psichici o fisici ma si possono evidenziare leggere depressioni, nervosismo, mal di testa e mal di stomaco.
In questo quadro frenetico e patologico sembra impossibile riuscire a relazionarsi con chi soffre di work addiction, e spesso sono proprio i figli o il coniuge a pagarne le peggiori conseguenze. La comunicazione si danneggia, e il forte senso di colpa per non essere mai disponibile per la propria famiglia complica ancora di più la relazione in quanto per paura di un rifiuto il workaholic si allontana per primo, in modo da potersi sentire ancora superiore. Questo crea un circolo vizioso in cui più il genitore workaholic si allontana, più il coniuge e i figli lo allontanano escludendolo dalle loro attività.
Questo schema ha come paradosso anche quello di mantenere e promuovere la dipendenza del genitore: il partner si fa carico di tutti i compiti da svolgere in casa, si organizzano le vacanze in base al lavoro che il familiare ha da svolgere, si giustificano le sue assenze, ma al contempo lo rimproverano della sua assenza. Queste accuse portano il workaholic ad allontanarsi ancora di più dalla propria famiglia e di ritornare ad immergersi nel lavoro, l’unica cosa sulla quale ha un controllo.
Ignorato, rifiutato, una seconda scelta rispetto al tempo che il coniuge dipendente dedica al lavoro. Pur di stargli vicino si accontenta del poco tempo libero che ha, o si rassegna a partecipare a conversazioni che riguardano il lavoro. Si sente in colpa per volere di più dal coniuge mentre lui riceve elogi e complimenti dai colleghi.
Come in altre psicopatologie i figli corrono il rischio di “ereditare” (in quanto comportamento osservato) il disturbo del genitore e nel tentativo di difendersi da un ambiente che non fornisce loro le adeguate attenzioni e cure sviluppano modalità disfunzionali per stare nel mondo. Sono quindi bambini conformisti, inclini alla depressione a causa della continua ricerca di approvazione da parte del genitore e degli altri, sviluppando aspettative oltre le reali potenzialità. Sono eccessivamente rigidi, perfezionisti e ipercritici con se stessi, si arrabbiano spesso e sono scontrosi e questo li porta a un’incapacità ad instaurare relazioni intime soddisfacenti.
I figli di genitori workaholic, come sopra citato, hanno una maggiore predisposizione a sviluppare questa dipendenza. Osservare i segnali che il proprio figlio ci manda e relazionarsi con lui emotivamente permette di prevenire molti comportamenti disorganizzati. Ancora una volta Robinson (1998) ci viene in aiuto nel definire, sinteticamente, quali possono essere i campanelli di allarme che nostro figlio ci manda:
Perché un workaholic guarisca è necessario che guardi con più realismo a se stesso e al suo lavoro, abbandonando un po’ del suo ideale perfezionismo, imparando a delegare e riuscendo, alla fine, a smettere di manipolare e aiutare gli altri, lasciandoli liberi di sbagliare e rendendoli responsabili delle proprie scelte (Lavanco, Milio, 2006). La psicoterapia breve con le sue strategie e i suoi compiti che il paziente deve rispettare, si presenta un valido e concreto aiuto a chi sta soffrendo per un eccessivo lavoro. Inoltre più recentemente (il primo gruppo risale al 1983) si sono attivati i Workaholics Anonymous che sulla base del programma delle Dodici tradizioni dei Workaholic Anonymous, e i racconti personali di ogni partecipante al gruppo, aiutano la persona a trovare un sostegno e una soluzione al problema.
Cristina Lo Bue
Bibliografia
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