Accettazione: come vincere senza combattere

Accettazione: la chiave per la serenità

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Molto spesso si confonde l’accettazione (di sé) con l’autostima. I due termini hanno molto in comune e sicuramente l’uno è funzione dell’altro, ma ad un’analisi profonda ci accorgiamo che non sono la stessa cosa. Mentre l’autostima si riferisce alla considerazione che un individuo ha di sé, l’accettazione abbraccia una miriade di aspetti del sé che non sono solo quelli positivi (appuntio, degni di stima) ma anche quelli negativi che ci causano sofferenza psicologica.

Si potrebbe dire che l’accettazione è incondizionata, libera da qualunque valutazione mentre l’autostima è il valore che una persona si costruisce nel tempo a partire da come ci fanno sentire o da quello che ci danno gli altri.

 

Il significato della parola accettazione

Nella lingua inglese, acceptance significa “intraprendere”. In questo senso ha un significato affine alla parola “acquiescenza” che sta per riconoscere una situazione o condizione così com’è, senza cercare di cambiarla o biasimarla, ma molti confondono l’accettazione con la rassegnazione solo che quest’ultima non implica la capacità di andare oltre insita invece nell’accettazione. Intraprendere è la promessa che ci facciamo di un atteggiamento positivo nei confronti dei mali della vita.

Nella vita ci ritroviamo ad affrontare situazioni che possono essere difficili da accettare: cambiamenti non voluti, una malattia improvvisa, la morte di una persona cara, il fallimento di un progetto, la perdita di un’opportunità. Sono tutte condizioni che fanno parte del ciclo di vita e che toccano tutti in un modo o nell’altro.

Origini del concetto

Nell’antica Grecia  si pensava che ciò che conta davvero, la struttura più forte è quella che non si vede, racchiusa nel corpo, e che per conoscerla bisogna scavare a fondo, andare oltre le apparenze. Tutta la filosofia dell’accettazione da Eraclito a Jung ruota intorno al dolore, sia esso fisico che psicologico.

Si parte dal dolore perché denota a tutto tondo la reale condizione umana: problemi, sofferenze morali e psicologiche, conflitti interiori, blocchi, paure, rassegnazione, dominio del più forte sul più debole e così via. Sono tutti aspetti nocivi per il corpo e la mente ma ci sono, sempre. Infatti, per la filosofia occidentale il dolore e’ una delle tonalità fondamentali della vita emotiva, e precisamente quella negativa, che viene solitamente assunta come segno o indicazione del carattere ostile o sfavorevole della situazione in cui l’essere vivente si trova (cit.)

L’accettazione nel rapporto genitore-figli

Da un punto di vista psicologico, l’accettazione di sé ha origine nell’infanzia dell’individuo a partire dalla relazione con i genitori. Più precisamente, studi scientifici hanno dimostrato che fino all’età di 8-9 anni il bambino non è in grado di avere la consapevolezza di un sé separato, allorché si sente ancora tutt’uno con la madre (o altro caregiver). Per questo motivo, se il genitore non è in grado di trasmettere al figlio il messaggio di essere apprezzato per quello che è o fa, il futuro adulto potrebbe vedersi in modo confuso o ambivalente.

Questo processo inizia già nelle prime settimane di vita del bambino, secondo quel meccanismo che Bion chiamava reverie materna.

Alla nascita il bambino è un ricettacolo di “cose in sé”, esterne alla psiche e prive di significato, che tuttavia possono avere carattere persecutorio; come meccanismo naturale queste cose che causano sofferenza e frustrazione vengono scaricate attraverso l’identificazione proiettiva sulla madre che se adeguatamente attenta ed empatica le riconosce, le accoglie in sé come un contenitore e gliele restituisce in cose più accettabili (un esempio elementare è la sensazione di fame -fisica- che dovrebbe generare una risposta mentale da parte della madre); in caso di una madre poco empatica succede che il bambino non riesce a sopportare la frustrazione e l’esperienza spiacevole non trova uno spazio mentale per essere elaborata.

Più avanti nello sviluppo, a partire dai tre quattro anni di età, inizia il processo di socializzazione e di interiorizzazione delle regole che servono alla convivenza con gli altri. Ma non vi è ancora una coscienza morale.

Quest’ultima, secondo Kohlberg inizia ad emergere poco prima della pubertà ed è una conquista importante per l’individuo: si dà un giudizio di moralità sulle nostre azioni e anche su quelle degli altri fino a comprendere il significato delle norme morali che regolano i comportamenti all’interno di una comunità o società.

Lo sviluppo morale procede di pari passo con quello emotivo, laddove la regolazione delle emozioni, la tolleranza alla frustrazione, l’empatia, l’apertura mentale intesa come capacità di ragionamento astratto permettono all’individuo di vedere il mondo e la vita da più prospettive, prendere le decisione giuste, valutare i rischi, comprendere il significato nascosto di eventi e discorsi.

Dalla dipendenza all’accettazione, cosa cambia nel cervello

Come tutti i processi di pensiero, anche l’accettazione parte dalla mente, o meglio, dai neuroni, che sono gli elementi fisici che ci permettono di elaborare le informazioni interne ed esterne al nostro corpo trasformandole in cose mentali.

Normalmente gli esseri umani tendono a cercare e ricercare il piacere per ottenere quella che si chiama ricompensa; questo è naturale nelle prime settimane di vita e anche tra gli animali. Più avanti nella vita, l’ottenimento della ricompensa diventa un piacere controllato, spesso premeditato e voluto. Quando non si ottiene l’oggetto della gratificazione, la frustrazione può causare scompensi alla salute fisica o mentale. E’ stato dimostrato ad esempio che gli animali messi in condizioni di sperimentare una frustrazione ripetuta, diventano più aggressivi con gli altri animali.

I meccanismi che governano la dipendenza, la frustrazione, la gratificazione dipendono da strutture cerebrali collegate tra loro funzionalmente, cioè attraverso vie nervose.

Come sostiene Maria Rita Parsi: siamo un laboratorio biochimico che produce anima, vale a dire che non esistono […] emozioni e  comportamenti che non siano correlati al nostro corpo […] (2007, p.38)

Detto questo, è facile capire come qualunque cosa si faccia, anche solo conversare, guardarsi attorno, concentrarsi su qualcosa, produce inevitabilmente modificazioni più o meno duraturi nel nostro corpo e soprattutto nel nostro cervello. Il processo è sempre bidirezionale: le emozioni causano alterazioni biochimiche  e quest’ultime influenzano le emozioni.

L’abuso o la dipendenza da sostanze o da comportamenti disfunzionali nel lungo periodo causano delle modifiche alle strutture del cervello che possono essere irreversibili.

Prendiamo il caso dell’uso/abuso di sostanze psicotrope o anche altri comportamenti come lo shopping sfrenato o il binge eating. Circa il 70% delle persone che sente un bisogno irrefrenabile di assumere una sostanza o di comprare cose, dichiara di sentirsi frustrato, triste, vuoto, sia prima che dopo.

Il piacere che si prova è effimero ed illusorio; questi comportamenti disfunzionali indicano che c’è qualcosa che la nostra mente vuole fare per liberarsi di una sofferenza interiore. Inizialmente questi comportamenti vengono consapevolmente ricercati per aumentare il benessere interiore e l’autostima.

Il rischio a cui si va incontro però è la perdita del controllo su questi comportamenti.

Tutto ciò che ci provoca piacere come cibo, acqua, sesso ecc. innesca nel cervello un forte rilascio di dopamina, soprattutto durante le prime esposizioni, poi una volta consolidata la memoria del significato della gratificazione, subentra un altro neurotrasmettitore, il glutammato, che agendo in sinergia con la dopamina, implica un potenziamento a lungo termine della memoria e dell’apprendimento.

Gianluca, 34 anni è passato dalla dipendenza dannosa causata da una sofferenza molto forte all’accettazione: “Avevo 20 anni e avevo passato il sabato sera con gli amici, abbiamo cenato e bevuto come si fa a quell’età. Intorno all’una di notte percorrevo con lo scooter la stessa strada urbana di sempre, per tornare a casa quando persi il controllo e andai a sbattere contro un cassonetto della spazzatura. Andai in coma per un mese, mi risvegliai e mi dissero che avevo perso per sempre l’uso delle gambe a seguito di una lesione al midollo spinale. Da quel momento sprofondai in un baratro buio e senza fine perché non accettavo quello che mi era successo. Avevo solo 20 anni. Piangevo tutti i giorni, non volevo uscire e vedere nessuno. Ero furioso e pensavo al suicidio. Mi lasciai andare e arrabbiato e rassegnato allo stesso tempo cominciai a far uso frequente di cocaina: mi sentivo euforico, non provavo dolore e sofferenza, non pensavo a niente…tanto ormai che ero più? Una nullità. Potevo drogarmi quanto volevo. La mia vita era finita il giorno dell’incidente.

Qualche anno dopo mi ritrovai a parlare con una persona adulta che mi illuminò e mi introdusse nella via della mia guarigione interiore attraverso la pratica dell’accettazione. Mi spiegò cos’era e cosa dovevo fare. Decisi di ascoltare il suo consiglio e dopo poche settimane non solo mi sentivo un po’ meglio ma mollai tutte le abitudini dannose e decisi di studiare psicologia all’università. Ad oggi posso dire che l’accettazione mi ha salvato la vita: ho una laurea, una moglie e da poco sono diventato papà di una bellissima bambina”.

Quando le abitudini si cristalizzano nel nostro cervello, è difficile lasciarle andare.

Il nostro cervello non distingue tra poter camminare o fare uso di una sostanza stupefacente, in quanto è programmato per dare significato e memorizzare ciò che ci dà piacere (vedi sistema di ricompensa). Anche quando ci fissiamo su un obiettivo, il nostro cervello prova piacere e rimaniamo motivati. Quando vengono a mancare, quello che ne consegue è ansia, angoscia, crisi, frustrazione, rabbia, comportamenti compulsivi come surrogati di un gap rimasto incolmato e incompleto.

L’accettazione si potrebbe dire che agisce proprio allo scopo non di colmare quel vuoto ma di abbracciare e adattarsi alla nuova condizione, accettando il fatto che uno scopo che prima si poteva raggiungere, ora è definitivamente invalidato. Se ho perso una persona cara, non ci sono soluzioni, niente posso fare per farla tornare in vita.

L’accettazione di una condizione dolorosa ci introduce in un nuovo percorso fatto di nuove speranze e obiettivi; la comprensione delle molteplici occasioni che ancora possiamo avere per rinascere e diventare abili e virtuosi in qualcos’altro. Pensate a tutte quelle persone che dopo aver subito bullismo da piccoli hanno deciso di aiutare le persone che si ritrovano nella stessa condizione: alcuni sono diventati dei veri e propri maestri d’arte scrivendo libri e partecipando a interviste radiofoniche!

Due utili alleate: ACT e Mindulfulness

benessere

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Il cervello cambia praticando una serie di operazioni mentali frequenti e costanti.

Vi sono ad oggi due pratiche che si basano sull’approccio cognitivo della CBT (psicoterapia cognitivo comportamentale) partendo dall’assunto che “le persone perdono il contatto con il momento presente quando cominciano a vivere nella loro testa” (Hayes et. al, 2006): l’Act (acceptance and committment therapy) e la Mindfulness, funzionalmente collegate.

L’accettazione da un punto di vista cognitivo è considerata un’alternativa all’evitamento esperienzale.

L’accettazione implica l’accoglimento attivo e consapevole di quegli avvenimenti della nostra vita che proviamo inutilmente a cambiare tenendo conto che sono proprio questi inutili tentativi a causarci sofferenza psicologica. Per esempio, tramite l’accettazione addestriamo i pazienti a sentire l’ansia come un sentimento, pienamente e senza resistenze; oppure pazienti con dolore cronico li si fornisce un modo per abbandonare la lotta contro il dolore e così via.

Per quanto possa sembrare una sorta di “lasciarsi andare alla rassegnazione” evidenze empiriche e studi scientifici hanno dimostrato che in realtà l’accettazione è una tecnica volta a incrementare l’azione basata sui valori della persona. Ciò a cui si aspira è la cosiddetta defusione cognitiva, ovvero, attraverso l’ACT si tenta di modificare non tanto la forma, la frequenza dei pensieri negativi e la sensibilità situazionale, quanto il modo in cui la persona interagisce o  si relaziona con i pensieri creando contesti in cui le loro funzioni inutili diminuiscono.

Ad esempio, un pensiero può essere guardato con distacco emotivo conferendogli una forma, un colore, una velocità e una misura (oggettualizzandolo). Ripetendo più volte a voce alta come vediamo questo pensiero, alla fine ciò che ne rimarrà sarà solo il suono della voce. Questa procedura serve per indebolire la nostra tendenza a combattere contro cui si riferisce il pensiero (“ormai la mia vita è finita, non c’è più nulla”). La defusione cognitiva insita in questo processo cognitivo, in altre parole, è come se ci portasse a non credere o a staccarsi da quegli avvenimenti, piuttosto che un immediato cambiamento nella loro frequenza.

ACT (gli inglesi la pronunciano come se fosse una singola parola), si pone come obiettivo quello di entrare in contatto con gli eventi psicologici e situazionali in modo non giudicante, con un approccio più flessibile così che le loro azioni siano in sinergia con i propri valori. Accettare per adattare alla nuova situazione nuovi comportamenti e nuovi obiettivi.

Di notevole importanza nella defusione cognitiva dell’Act è l’utilizzo del linguaggio come strumento per descrivere e narrare i pensieri, non per giudicarli o fare previsioni nefaste. Grazie alla verbalizzazione dei propri pensieri, il sé diventa un processo e un contesto. Il linguaggio umano conduce la persona  a un senso di sé più trascendentale e spirituale. Rammentando il caso di Gianluca, la sua vita non era finita….una volta accettata la sua nuova condizione non solo ha smesso di farsi ulteriormente del male (uso di droghe) ma si è posto un nuovo obiettivo (la laurea) e poi ha conosciuto una donna che lo ha amato.

Le modificazioni cerebrali che seguono una pratica di accettazione consapevole sono molteplici.

Il guadagno che si ottiene ha un significato evolutivo e di protezione, infatti studi recenti di neuroscienze hanno dimostrato che un dolore prolungato (anche psicofisico) altera le caopacità di adattamento dell’organismo rendendo l’individuo più debole e vulnerabile agli attacchi esterni.

Quindi il dolore e la sofferenza fisica vanno accettati e utilizzati. Quali sono le modificazioni a carico del cervello? La pratica meditativa costante (che come intervento di elezione fa parte anche dell’ACT), comporta delle modificazioni a carico della parte destra dell’insula, del lobo parietale inferiore e della corteccia somatosensoriale. Nello specifico sembra che sia proprio la rappresentazione narrativa di sé e il focusing nel momento presente a causare queste modificazioni.

 

meditazione

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Non dimentichiamoci che le strutture cerebrali sono organizzate in modo funzionale e bidirezionale quindi vi sono anche connessioni con l’amigadala (coinvolta nell’emozione della paura) e la corteccia cingolata anteriore coinvolta negli stati di conflitto cognitivo, dolore ed errori compiuti nell’esecuzione dei compiti. Il coinvolgimento di tutte queste aree (e di altre aree del cervello come quelle del linguaggio e dell’elaborazione dei concetti) implica di conseguenza un cambiamento anche nella secrezione dei neurotrasmettitori dopamina, serotonina e noradrenalina. Dopo anni di pratica di accettazione consapevole è stato dimostrato che vi è un aumento di materia grigia (quindi di neuroni) soprattutto nelle aree coinvolte nella presa di decisione, nell’apprendimento, nella memoria e negli affetti.

Si diventa più intelligenti? Può darsi, ma l’intelligenza è anche capacità di adattamento: un ostacolo, una condizione avversa diventano un vantaggio e occasione di evoluzione spirituale.

Come sostiene Gendlin a proposito dell’attenzione focalizzata

“Il focusing è un amico che ascolta il corpo […] è allo stesso tempo riccamente complesso e sorprendentemente semplice. E’ mentale e cenestesico, misterioso nella sua capacità di evocare la saggezza sepolta, olistico per il suo rispetto della “sensazione sentita” di un problema. Metodo efficace in sé, è valido anche se associato a vari tipi di psicoterapia, al biofeedback, alla meditazione, per sbloccare i processi creativi e risolvere i problemi. In breve il focusing funziona con ogniforma di “blocco”. (2001, p.9). Sicuramente il percorso di accettazione è lungo ma non è una fine, quanto piuttosto un modo per scoprire e rinforzare i propri valori. L’Act punta molto a scalzare tutti quei processi verbali che possono portare a decisioni basate sull’evitamento, la conformità sociale e il fare propri pensieri altrui (e.g. “mia madre vuole che io valuti questa cosa”).

Nell’ACT accettazione, indebolimento dei connotati emotivi dei pensieri, essere presenti come processo-contesto non sono finalità ma fari che illuminano un percorso di vita più attivo e sostanzioso.

L’Accettazione quindi va intesa non come accettazione delle cose brutte che ci capitano nella vita bensì dei sentimenti negativi e della sofferenza da queste causati, riconoscendo che sono solo creazioni della nostra mente e per questo plasmabili, un po’ come quando si lavora l’argilla.

L’accettazione come processo richiede una mente consapevole, mindful  appunto, presente nel qui ed ora, cosciente e informata di tutte le sensazioni del proprio corpo e di ciò che succede nell’ambiente. L’ascolto è focalizzato, partecipe, attento ai dettagli. La respirazione è lenta e controllata. La mente è sgombra da pensieri di qualunque tipo mentre rimane concentrata sulle proprie sensazioni. Le sensazioni possono essere oggettualizzate, trasformate in colori e forme….tutto quello che sentiamo lo possiamo visualizzare, toccare, modellare e far svanire come fumo.

Fonti:

Farb N. et al. Attending to the present: mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference, Social cognitive and affective neuroscience, 2007, 313-322

Gendlin E.T Focusing, Astrolabio 2001

Hayes S.C. et al. Acceptance and committment therapy: model, process, outcomes, Behavior research and therapy, 2006, 1-25

Kandel E.R. et al. Principi di neuroscienze, Ambrosiana 2019

Parsi. M.R. Il cervello dipendente, Salasi editore 2008

Miriam Melani

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    Miriam Melani
    Psicologa, Tutor dell'apprendimento. Da anni si occupa di attività disturbi dell'apprendimento (DSA e non), neuroscienze generali.

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