Disturbo ossessivo da relazione e dipendenza affettiva

Disturbo ossessivo da relazione e dipendenza affettiva: quale legame?

disturbo ossessivo da relazione

disturbo ossessivo da relazione

Disturbo ossessivo da relazione e dipendenza affettiva: quale legame?

Il disturbo ossessivo da relazione è un disturbo che ha come oggetto le relazioni intime.

I sintomi caratteristici di questo disturbo sono:

  • sentirsi sbagliati e di non essere degni di essere amati (colpa, vergogna)
  • al minimo difetto del partner, dubitare di aver fatto la scelta giusta
  • non riuscire a smettere di pensare a problemi reali o immaginati
  • evitare di impegnarsi in relazioni a lungo termine, oppure di sposarsi o avere figli
  • fare continui confronti tra il proprio partner e gli altri, nonostante l’amore profondo
  • esperire nel tempo abbattimento e depressione
  • pensare di essere nella mente del partner e sentire cosa pensa o come si sente circa noi stessi e la relazione
  • sbalzi d’umore derivanti dai dubbi sulla relazione o sul partner
  • chiedere continue rassicurazioni o pareri agli altri sul partner

Studi scientifici mostrano come per comprendere a fondo il disturbo da relazione, sia fondamentale indagare la storia di attaccamento del paziente e in questo si è rivelato utile la connessione con  il concetto di dipendenza relazionale.

DALLA DIPENDENZA AL DISTURBO OSSESSIVO DA RELAZIONE

Quando si parla di dipendenza la prima cosa che salta alla mente è qualcosa di problematico e patologico. Questo se la dipendenza la contrapponiamo all’indipendenza. Immaginiamo però che la dipendenza sia posta lungo un continuum del tipo

dipendenza sana (sicura)——————————————– (insicura) dipendenza patologica

Ci rendiamo subito conto che l’indipendenza, cioè quella condizione di autonomia e libertà che tanto agognano gli esseri umani, presuppone sempre la capacità di dipendere. Winnicott affermava la stessa cosa quando parlava della solitudine

“la capacità di stare soli implica la capacità di stare in compagnia”.

Nell’ambito delle relazioni interpersonali, ci chiediamo se sia giusto parlare di dipendenza o piuttosto di attaccamento.

L’attaccamento secondo Bowlby

L’attaccamento secondo Bowlby è la tendenza degli esseri viventi a costruire e organizzare legami affettivi profondi e duraturi con particolari persone; nel caso dei cuccioli e dei bambini piccoli sono i genitori, in età adulta altre persone come amici, colleghi, marito/moglie ecc.

In natura è stato riscontrato che il distacco precoce, per abbandono, perdita ma anche trascuratezza, della figura di accudimento, può lasciare ferite profonde nell’assetto emotivo della persona.

Le figure di accudimento offrono sostegno e protezione.

Sono pronte a intervenire quando il piccolo ha bisogno; la vicinanza fisica, il contatto, le cure, i sorrisi….tutto incide sulla fiducia che si crea nel legame. Il sostegno offre la base per lo sviluppo di un Sè autonomo, anche se paradossalmente, una persona che ne ha ricevuto molto (e quindi il suo attaccamento può risultare sicuro),potrebbe sempre avere bisogno di un appoggio nelle situazioni di pericolo, di incertezza e di stress. Tuttavia, ampi studi longitudinali hanno dimostrato che bambini e adulti con attaccamento sicuro godono

  • di più autostima e maggiore sicurezza nelle proprie capacità
  • a livello cognitivo, una maggiore capacità di problem solving e anche di far fronte alle avversità
  • più sicurezza nell’esplorazione del mondo
  • approccio più positivo nei confronti del lavoro
  • rassicurazione all’interno del Sé e creazione di imago (figure) parentali positive che fanno da impalcatura interna

I comportamenti di attaccamento e di dipendenza presentano tratti simili. I bambini piangono, si aggrappano e cercano la vicinanza del genitore. Quindi vi è una connessione tra questi due concetti. Quello ce conta, secondo alcuni studiosi è capire che la dipendenza in età adulta (per adulto in questo caso intendiamo anche l’adolescente) è un atteggiamento mentale rispetto all’attaccamento, e non una connotazione qualitativa del legame.

Se vi è stata una dipendenza sana nell’infanzia, l’atteggiamento nei confronti dell’autonomia e dell’indipendenza sarà più propositivo e positivo.

dipendenza affettiva

dipendenza affettiva

NEUROBIOLOGIA DELLA DIPENDENZA E DELL’OSSESSIONE

Numerosi studi sono stati condotti sulle modificazioni cerebrali in seguito a dipendenza patologiche da sostanze psicotrope così come numerosi sono gli studi sulla dipendenza patologica da gioco, shopping, lavoro. Vi sono delle condizioni che facilitano l’instaurarsi della dipendenza sia a livello fisico che mentale: disponibilità dell’oggetto, gratificazione immediata, giovane età (di solito l’adolescenza è l’età più a rischio). Le esperienze psicologicamente salienti causano alterazioni neurochimiche a carico di alcuni neurotrasmettitori tra cui la dopamina e le endorfine. che a loro volta creano dipendenza. La dopamina è implicata nel sistema del reward  (ricompensa) e della motivazione; le endorfine giocano invece un ruolo importante nella sensazione di euforia e di riduzione del dolore. Secondo Cloninger, il sistema dopaminergico influenza alcuni comportamenti come la ricerca continua di stimolazioni, l’impulsività, l’esplorazione e l’instabilità relazionale. La risposta neuronale è più intensa se la gratificazione è aspettata, premeditata, piuttosto che avvertita inaspettatamente.  Da un punto di vista biologico il fenomeno della dipendenza è conseguenza di un’ardente ricerca dell’oggetto desiderato che una volta ottenuto dà all’individuo la sensazione di annullamento di qualunque stato d’animo negativo (effetto del rinforzo negativo). Ne consegue che la ricerca, il bisogno dell’oggetto diventano compulsivi e possono eliminare la ricerca di altre fonti di piacere: in altre parole, il cervello finisce per specializzarsi su uno specifico oggetto.

Le strutture neuronali che fanno parte del circuito della dipendenza (o meglio del sistema reward) sono principalmente il Nucleo accumbens, l’area tegmentale-ventrale (da cui parte il rilascio di dopamina diretto al nucleo accumbens) e la corteccia prefrontale. I primi due costituiscono il motore motivazionale, mentre la corteccia ha una funzione di controllo e di inibizione nei confronti di alcuni comportamenti. Tuttavia, i neuroni della corteccia prefrontale sono fragili e diminuiscono la loro efficacia in presenza di stimoli altamente eccitanti (pensiamo a come perdiamo la testa quando ci innamoriamo!)

La neurofisiologia della dipendenza 

Nell’ambito della neurofisiologia della dipendenza illuminanti sono stati gli studi di Hofer (Beebe, 1999) secondo il quale la diade madre-bambino funge da regolatore sul sistema nervoso del bambino; in uno sviluppo normale e sano questi processi regolatori nascosti vengono internalizzati per garantire l’autoregolazione fisica ed emotiva. Ma affinché questo percorso si esplichi, sono necessarie tre componenti: la maturazione del sistema nervoso, l’interiorizzazione delle componenti affettivo-cognitive del legame diadico e l’influenza di altre relazioni nel corso della vita.

Quello che vuole dire Hofer è che la capacità di autoregolazione emotiva e fisiologica s fonda sulla dinamica madre-bambino, dal quale poi hanno origine quelle che Bowlby chiama modelli operativi interni della relazione. Ad esempio, una madre troppo premurosa o opprimente non fornisce una base di buona autoregolazione nel figlio, il quale mancando di questa risorsa, ad ogni stato di angoscia, paura, stress sentirà di avere bisogno dell’aiuto di qualcun’altro per regolarsi, pena la sensazione di andare in frantumi. Ma anche una madre assente, poco empatica, anaffettiva può lasciare nel figlio un bisogno costante di accudimento e sicurezza circa il proprio Sé, le proprie emozioni e la capacità di farcela da solo.

I modelli operativi interni disfunzionali, che presentano una povertà simbolico-relazionale circa il legame con le figure primarie di accudimento, possono quindi portare a varie forme di dipendenza (non solo relazionale) come relazione di appoggio e bisogno perpetuo. Da questo punto di vista si rivela importante il tipo di oggetto che funge da rifornimento affettivo.

 Dopo una prima fase di infatuazione e innamoramento di una persona, subentra l’amore, ed è qui che si instaura l’attaccamento. A livello fisico, farsi le coccole, abbracciarsi e baciarsi non solo attenua l’elevata attivazione fisica, ma contribuisce a produrre grandi quantità di ossitocina. Studi scientifici hanno dimostrato che l’ossitocina viene prodotta ad elevate quantità durante il travaglio e il parto, e continua a rimanere attivo durante l’allattamento. Sembrerebbe che l’ossitocina in genere favorisca e contribuisca a mantenere i legami d’amore (madre-figlio, marito-moglie…)

Una volta nella fase dell’amore, coccole e attività sessuale diminuiscono lasciando il posto  ad attenzioni reciproche basate sulla fiducia, il rispetto, l’essere di supporto l’uno per l’altro, il dialogo, la complicità, la progettazione e al centro della vita di coppia iniziano ad esserci il lavoro, le attività sociali, i figli. Anche in questo caso, il sistema di attaccamento funziona da regolatore dell’attività fisiologica dei partners:  “il legame si consolida in una catena che è psicologica, emozionale e fisiologica allo stesso tempo. Diventa l’amore che dura tutta la vita e per alcuni anche al di là della vita” (Attili, p.90).

Il fatto che l’attaccamento abbia instaurato un’interdipendenza fisio-psicologica è facilmente riscontrabile in caso di lutto, separazione temporanea e abbandono. I sintomi sono alterazioni del ciclo sonno-veglia, inappetenza, indebolimento del sistema immunitario, abuso di sostanze, apatia, rabbia, disperazione e in alcuni casi suicidio o omicidio del partner abbandonico. Negli inidividui più anziani (over 70) vi è anche il rischio di una degenerazione dello stato di salute generale che può portare alla morte a distanza di pochi mesi dalla dipartita del coniuge.

Gli scompensi del neurotrasmettitore serotonina incidono sullo stato ansioso e depressivo. Inoltre, uno studio del 2014 condotto da Barbara Basile ha rivelato che nei pazienti con ossessioni e compulsioni, vi è una riduzione dell’attività cerebrale nell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e il precuneo quando l’emozione provata è il senso di colpa di tipo morale, mentre la rabbia e la tristezza attivano altre aree che non sempre si attivano nei pazienti con DOC: Probabilmente, l’educazione morale interiorizzata da bambini, unitamente ad un bisogno di rispetto e perfezionismo, può portare alcune persone a questo tipo di nevrosi.

L’AIUTANTE MAGICO

Secondo Caretti e La Barbera, la dipendenza patologica può essere concettualizzata come

“una relazione in cui il soggetto dipendente è vincolato a una perenne regolazione sull’altro, mentre è incapace di regolare da solo gli stati del Sé […] compiacimento collusivo derivato dalle gratificazioni prodotte dall’idealizzazione […]” (p. 81, 2005).

L’idealizzazione dell’altro come aiutante magico è secondo la psicoanalisi classica quel processo per cui il neonato attribuisce alla sua figura di accudimento (di solito la madre) una perfezione che in realtà attribuisce a se stesso. Secondo la Klein, l’oggetto idealizzato funge da protettore contro i nemici e i persecutori psichici; per Kohut invece l’idealizzazione dell’Oggetto-Sé ha la funzione di regolare il comportamento e gli affetti (che poi, è lo stesso meccanismo che inconsciamente utilizzano gli adulti quando aderiscono a un ideale, una causa sciale, una passione e così via…).

Finché il bambino è molto piccolo, l’Altro ha ragione di esistere come un suo prolungamento o riflesso; le cose cambiano quando il bambino entra nella fase di separazione-individuazione. Genitori troppo apprensivi, intrusivi e spaventati possono impedire al figlio qualunque forma di autonomia e allontamento. Il bambino interiorizza l’idea di un mondo pericoloso, di non potercela fare se non aiutato da qualcuno. Dentro di sé rimane il bisogno di sapere che l’Altro è sempre lì, che in caso di pericolo può affidarsi a lui.

Romina parla della sua ansia da separazione in età adulta:

avevo 28 anni e lavoravo come segretaria in uno studio legale. Ero fidanzata da un anno con un ragazzo della mia stessa età. Sin da bambina ho sempre avuto un carattere ribelle: volevo fare le cose da sola, uscire da sola, vestirmi come più mi piaceva, non sopportavo vincoli e impedimenti, non mi piacera stare troppo a casa ed ero intollerante alla noia. Mi piaceva studiare e viaggiare. Mi ero accorta che tutti i giorni, prima di andare a lavorare dopo pranzo, salutavo il mio fidanzato al telefono e subito venivo presa da un terribile stato di angoscia: mal di pancia, tachicardia, panico, desiderio di rimanere a casa e non andare a lavoro. Avevo paura che il mio fidanzato, dopo averlo salutato non tornasse più. Stavo male durante le prime due ore a lavoro, finché non ricevevo un suo messaggio mi sentivo subito meglio….sollevata. L’importante per me era sapere che c’era….che non mi aveva lasciato. Riflettendoci bene, questo è il tipico comportamento dei bambini di 2 o 3 anni….probabilmente qualcosa è andato storto quando avevo anch’io quell’età”.

L’ansia da separazione non è l’unico campanello d’allarme di una dipendenza dal partner come fonte di benessere e sollievo. Secondo la psicologia accademica, i tratti più comuni di una personalità dipendente dalla relazione col partner sono:

  • ha difficoltà a prendere decisioni senza chiedere continuamente consigli
  • ha paura a esprimere dissenso verso le opinioni altrui per paura di perdere l’approvazione
  • è capace di accettare anche attività e comportamenti spiacevoli e scorretti pur di rimanere legato al partner (come le violenze fisiche, tradimenti ecc)
  • si sente più tranquilla se le responsabilità ricadono sull’altro piuttosto che su di sé
  • tende a sottomettersi al volere del partner
  • solitamente si innamora di partner ce non sono emotivamente disponibili oppure molto diversi come status sociale o ancora con status sociale discutibile
  • non ha un’immagine stabile di sé (valori,obiettivi, sentimenti)
  • ha il terrore di essere abbandonato
  • ha difficoltà a riconoscere ed esprimere la propria rabbia
  • è manipolabile e suggestionabile
  • tende a esprimere l’aggressività repressa attraverso comportamenti di sbadataggine, tenere il muso, procrastinare ecc

L’ansia e la paura fanno entrare la persona in un loop senza fine: i sintomi assomigliano molto a quelli del Disturbo Ossessivo-Compulsivo che sappiamo essere caratterizzato da pensieri intrusivi, ruminazioni continue, continui comportamenti di controllo-verifica-conferma, azioni compulsive che hanno la funzione di alleviare l’ansia (ripetute telefonate, richieste continue di rassicurazioni e attenzioni), azioni messe in atto per scongiurare il presunto/immaginato rischio di perdita o abbandono ( ad esempio, nella personalità borderline troviamo spesso comportamenti paradossali che sembrano voler indurre il partner all’abbandono, quando in realtà sono malsani quanto pericolosi tentativi di conferma di essere amati e non lasciati).

Le persone che presentano pensieri ossessivi circa il proprio partner o il legame sperimentano ansie terribili in seguito alle incertezze. Ad esempio, basta una critica nei confronti del partner che subito si innesca un’ansia ossessiva “ e se avesse ragione? E se avessi sbagliato partner? Forse mi potevo trovare di meglio!”; tuttavia, ciò che rende queste persone insicure è il fatto che ad ogni pensiero negativo e svilente del partner, segue una credenza del tipo opposto “se lo lascio e poi me ne pento? Lui mi ama per davvero, e se poi non trovo qualcuno che mi ami così?”, pensieri accompagnati da profondi sensi di colpa nei confronti del partner e percezione di bassa autostima. La persone affetta dal disturbo ossessivo da relazione è capace di chiedersi se veramente ama il suo partner: in alcuni momenti ne è convinta, in altri no.

Il disturbo ossessivo da relazione si trova spesso in comorbidità con i disturbi dell’umore, i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità. In quest’ultimo caso, il disturbo borderline di personalità presenta tratti comportamentali in comune con quelli del DOCR tra cui l’instabilità dell’immagine di sé, del partner e della relazione. L’individuo borderline presenta un pensiero disfunzionale di tipo dicotomico (o tutto bianco o tutto nero), questo vale anche per i sentimenti che prova verso il partner. Idealizzazione/rifiuto, amorevolezza/disinteresse, attaccamento/allontanamento, dolcezza/aggressività…. un momento dopo si sente andare in mille pezzi se è il partner ad abbandonarlo.

Quindi il disturbo ossessivo da relazione come il d.borderline di personalità hanno alla base un problema di regolazione degli affetti che porta molto spesso alla dipendenza nelle relazioni d’amore. Nel DOCR, ad ogni dubbio ossessivo sul partner segue il senso di colpa morale.

Ad oggi si cerca ancora di chiarire la differenza tra dipendenza e personalità dipendente. Secondo la psicologia accademica, già negli anni ’90 si cercò di delineare la distanza tra i due concetti, sottolineando come la dipendenza, che crea ossessioni e compulsioni, sia uno stile relazionale piuttosto che un disturbo a carico della relazione. Come abbiamo detto all’inizio dell’articolo, la dipendenza sta alla base di una sana e fiduciosa autonomia; solo quando la relazione comporta più sofferenza che benessere, solo se la persona dipendente vive in un continuo stato di inquietudine, preoccupazione, acquiescenza, senso di inefficacia, annullamento di sé ed evitamento delle responsabilità allora si deve intervenire per rafforzare il proprio Sé.

COSA SI PUO’ FARE PER USCIRE DALLA SPIRALE DELLE OSSESSIONI E DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

E’ grazie alla coscienza che siamo in grado di riconoscere che abbiamo pensieri, emozioni, sensazioni corporee, quindi non dobbiamo ripeterci di non essere dipendenti o di non avere attaccamento, perché così facendo rimaniamo attaccati.  Tutto ciò che dobbiamo fare è potenziare il nostro Sé, dargli quel rifornimento e quella forza di cui ha bisogno per vivere al meglio i rapporti col mondo e con gli altri.

Dal momento in cui i sintomi nucleari del disturbo ossessivo da relazione  sono gli stessi di qualunque DOC (ossessioni, compulsioni, ansia), le terapie più efficaci sono la t.cognitivo comportamentale e la terapia dell’esposizione (ERP); quest’ultima lavora sulla resistenza alle compulsioni, insegnando a non assecondarle, a non fare niente. Per quanto possa sembrare difficile (e all’inizio lo è), questo metodo serve a non alimentare il circolo pensiero negativo-azione riparatoria.

Sempre la psicoterapia cognitiva offre la possibilità di lavorare sulle memorie di esperienze attraverso la tecnica della immaginazione. Nello specifico, si porta il paziente a rivivere eventi dolorosi del passato per fermarli nel qui ed ora e reinterpretarli in modo positivo. Infatti vi sono secondo la teoria dello Schema therapy, immagini o schemi maladattivi del tipo distanza/rifiuto, abbandono, vergogna, esclusione sociale, vulnerabilità, dipendenza ecc.che dirigono in modo più o meno cosncio i comportamenti delle persone. Lavorando su queste immagini negative (che sono vivide e frequenti nella mente di persone con vari disturbi del comportamento) si porta il paziente a passare da una modalità di pensiero disfunzionale ad una più sana ed adattiva.

Nonostante la grande efficacia delle terapie cognitive, il rischio di ricadute a distanza di tempo è significativa. E’ stato dimostrato che integrando la pratica mindfulness per un un periodo di tempo di almeno due mesi per qualche ora a settimana, non solo aumenta l’efficacia del trattamento cognitivo ma il miglioramento è visibile anche a distanza di molti mesi dopo l’interruzione della pratica.

La mindfullness è la pratica della mente consapevole. Nel caso del disturbo ossessivo da relazione, il paziente si allena ad essere consapevole delle proprie sensazioni corporee, dei pensieri e delle emozioni, considerandole con distacco e in modo non giudicante nel momento presente. Ad esempio, si trasformano i pensieri in metafore (visive, poetiche) e si osservano come se si materializzassero davanti agli occhi del paziente. Osservarle, prenderle per come sono, accettarle (invece di sopprimerle e negarle) e poi lasciarle andare. Aiutare a visualizzare il proprio respiro durante la pratica mindfulness aiuta ad a ridurre l’ansia e l’attivazione del sistema nervoso.

 

 

 

 

FONTI

 

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/23681167/#affiliation-1 (lo studio di Barbara Basile)

 

https://www.betterhelp.com/advice/personality-disorders/how-to-manage-your-relationship-obsessive-compulsive-disorder-rocd/

 

 

https://sipreonline.it/wp-content/uploads/2016/07/RP_1999-1_1_Beebe-Lachman-Jaffe_Le-strutture-dinterazione-madre-bambino.pdf

 

Accursio G., Scagliarini G.C. Temperamento e personalità, Piccin 2007

 

Attili G. Attaccamento e amore, Il Mulino 2005

 

Carelli V., La Barbera D. Le dipendenze patologiche, Cortina Editore 2005

 

 

 

Sumedho A. Consapevolezza intuitiva, Ubaldini Editore, (2005)

 

 

 

 

 

 

Miriam Melani

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    Miriam Melani
    Psicologa, Tutor dell'apprendimento. Da anni si occupa di attività disturbi dell'apprendimento (DSA e non), neuroscienze generali.

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