IGNORANZA ED EFFETTO DUNNING-KRUGER: conoscenza o presunzione?
“L’essere umano è felice solo quando si serve di tutte le sue capacità e di tutte le sue possibilità.”
Jostein Gaarder
L’Effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva (bias) secondo la quale alcune persone credono di essere più competenti o brave in qualcosa di quello che sono in realtà.
Il fenomeno prende il nome dai due studiosi che per primi individuarono questo meccanismo nei luoghi di lavoro e ha come cause principali una scarsa autoconsapevolezza e basse capacità cognitive. In altre parole, in queste persone mancherebbe la capacità di riconoscere la loro incompetenza, sopravvalutando se stessi e sottovalutando gli altri. Il meccanismo affligge anche le persone talentuose e intelligenti, che tendono a sottostimare se stesse a favore di un’alterata concezione degli altri. Al giorno d’oggi, inoltre, sembra davvero prevalere quella che possiamo definire un’ignoranza generalizzata.
Ignoranza ed effetto Dunning-Kruger: facciamo chiarezza: VERO SE’, FALSO SE’
Secondo alcune teorie psicoanalitiche, il riconoscimento di sé e l’autoconsapevolezza emergono tra il secondo e il quarto anno di vita, quando il bambino sa di esistere ed è consapevole della sua presenza nel mondo separata dagli altri oggetti (persone). Prima di questo periodo, il bambino si percepisce fuso con la madre, sia fisicamente che mentalmente; anche le sensazioni fisiologiche che prova il bambino sono dipendenti dalle risposte più o meno sintonizzate della madre. Se viene a mancare una buona responsività materna, nel bambino molto piccolo, si creano elementi persecutori e di frustrazione che devono in qualche modo trovare un canale di sfogo.
Ignoranza ed effetto Dunning-Kruger: un po’ di storia
Per Winnicott essere fusi significa che madre e bambino sono tutt’uno; la madre, soprattutto se sana, a differenza del bambino, ha consapevolezza di sé e della sua separazione psicofisica dal bambino. Quest’ultimo invece quando guarda il volto della madre pensa che sia il suo, così come il corpo della madre un suo prolungamento, come i suoi bisogni, i suoi stati emotivi, una continuazione del suo corpicino.
Se la madre è sufficientemente e adeguatamente responsiva, il bambino gradualmente si costruirà una esistenza individuata. In caso contrario, quando ad esempio la madre è malata, poco presente, scarsamente sintonizzata, la personalità del bambino si organizzerà in base all’ambiente. In questo caso, il bambino ( e poi il futuro adulto) si costruisce un falso sé, talvolta sano e protettivo nei confronti del vero sé, talvolta patologico. Vivere guidati dal falso sé “di fatto, non è vivere veramente” (Abram, 2002).
Immaginiamo che la dinamica del rapporto madre-bimbo piccolo sia raffigurabile come una serie di centri concentrici, laddove al centro si colloca l’essere del bambino, nel guscio più esterno il bisogno narcisistico della madre di essere vista. Grazie a cure materne adeguatamente buone, gradualmente il guscio viene meno e il bambino ( che sarebbe il nucleo, il centro di gravità dell’essere) può emergere e diventare individuo.
Tuttavia, il vero sé deve in qualche modo rimanere isolato e non comunicabile. Solo in questo modo si possono scongiurare minacce e angosce che derivano dai fallimenti delle cure materne.
A questo punto, quando il bambino diventa individuo, si sente reale, dà significato alla vita. Per Winnicott l’essere è centrale per qualsiasi esperienza nella vita, e se per vari motivi il bambino non ha avuto la possibilità di essere, la qualità del futuro (sentimentale, lavorativo ecc) potrà esserne compromesso. Come recita Winnicott
“ la capacità di fare, allora, è basata sulla capacità di essere” (Abram, 2002, p.106).
“IO CHI SONO?”: PERCEPIRE, COMPRENDERE E GIUDICARE SE STESSI
Io chi sono? È una domanda che molte volte nella vita ci poniamo. Arrivare ad una risposta chiara e coerente è il più delle volte difficile in quanto la quantità di cose che sappiamo su noi stessi supera tutte le conoscenze che possediamo sugli altri. Quando ci descriviamo, possiamo definirci seri e competenti sul lavoro, scontrosi ed emotivi nel rapporto di coppia, socievoli e divertenti con gli amici. A differenza di ciò che proviamo quando descriviamo gli altri, quando descriviamo noi stessi vi sono dei risvolti sul nostro stato emotivo e sul nostro umore, di fatti, come spesso accade, se ci dovessimo definire malvagi o scorretti, il nostro io non lo accetterebbe e tenterebbe in qualche modo di aggiustare il giudizio in modo che si possa stare bene con noi stessi. Questo meccanismo viene spiegato brillantemente da Leon Festinger con la sua teoria della dissonanza cognitiva (1957):
“Una persona può semplicemente cambiare la propria cognizione, cambiando le proprie azioni; ad esempio, smettere di fumare. Se non fuma più, allora la sua cognizione sarà consonante alla sua opinione ( o credenza personale) che il fumo fa male alla salute” (p. 6, trad. e cors. Miei).
In realtà, noi sappiamo che adeguare i nostri comportamenti alle nostre credenze personali, non sempre è facile. Pur sapendo che fumare fa male, noi continuiamo a farlo giustificando la nostra azione con qualche scusa che possa farci sentire persone giuste e coerenti.
Questo meccanismo cognitivo entra in gioco anche in altre situazioni, come ad esempio nelle relazioni interpersonali. Spesso, come sostiene Festinger, per preservare l’autostima e una buona immagine di noi, tendiamo a giustificare anche le azioni cattive.
FONTI
- https://psycnet.apa.org/record/1993-97948-000
- https://www.verywellmind.com/an-overview-of-the-dunning-kruger-effect-4160740
- Abram J. Il linguaggio di Winnicott, Franco Angeli, 2002
- Battacchi W.M. Vergogna e senso di colpa in psicologia e nella letteratura, Cortina Editore, 2002
- Castelli L. Psicologia sociale cognitiva, Il mulino, 2009
- Lis A, Stella S., Zavattini G.C. Manuale di psioclogia dinamica, Il Mulino 2009
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