perfezionismo patologico
Le persone che presentano tratti di “perfezionismo” sostengono che qualunque cosa facciano non sia mai abbastanza e che sia un ottimo motivatore per ottenere grandi risultati nella vita e far aumentare l’autostima.
Tuttavia è stato dimostrato che il perfezionismo può rendere una persona profondamente infelice: depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare e autolesionismo sono i risvolti negativi più frequenti.
Soprattutto questi ultimi due possono prefissarsi grandi obiettivi da raggiungere a scuola e nello sport non solo per gratificazione personale ma per impressionare e gratificare gli altri ( genitori, insegnanti e così via), pena un profondo senso di colpa e timore di non essere amato.
Katia è una donna di 60 anni, single, senza figli, affetta da obesità in seguito a un disturbo del comportamento alimentare (binge eating).
Racconta che fino all’età di 45 anni era stata una bella donna, aveva intrattenuto qualche relazione sentimentale senza mai sposarsi, insegnava ginnastica in un liceo e curava molto il suo aspetto fisico.
Dopo la morte di suo padre (giocatore d’azzardo) Katia e la madre si ritrovarono a dover pagare grossi debiti di gioco lasciati dal padre. Nel frattempo viveva da sola e non aveva più un uomo al suo fianco.
Inizia il declino: Katia inizia a mangiare in modo smisurato e compulsivo, ingrassa fino a pesare 140 kg, sviluppa un disturbo ossessivo compulsivo da accumulo (la sua casa è piena di oggetti vecchi e inutili ammassati in ogni angolo).
Per dimagrire decide di sottoporsi a un intervento chirurgico allo stomaco.
Durante uno dei suo colloqui Katia ammette che il perfezionismo le aveva rovinato la vita.
Di per sé, il desiderio di fare bene, di raggiungere buoni risultati, di curare il proprio aspetto, di porsi obiettivi ambiziosi non è né sbagliato né patologico, lo diventa quando l’individuo sviluppa un’ossessione ritualistica per ogni azione o dettaglio e quando soprattutto vive ogni manchevolezza con disagio e sofferenza psicologica.
Il perfezionismo come dimensione psicologica e comportamentale, presenta tre forme principali: desiderio di sentirsi perfetti (self-oriented), desiderio di sembrare perfetti davanti agli altri (other-oriented) e una forma di perfezionismo legata al conformismo sociale (socially-prescribed perfectionism).
A livello cognitivo, la forma di pensiero tipica del perfezionismo presenta le seguenti caratteristiche:
In psicologia clinica, vi sono alcuni disturbi di personalità che presentano tratti di perfezionismo patologico.
Il primo è il DNP (disturbo narcisistico di personalità) e l’altro il disturbo da personalità ossessivo-compulsiva.
Nel primo caso, secondo Kohut (Kring et al. 2013), gli individui con tale disturbo mostrano un senso spiccato di importanza e grandiosità cercando in continuazione approvazione e rispetto dagli altri. Sono individui che mancano di empatia, tendono a sfruttare gli altri per i propri scopi (tra questi, la propria immagine), focalizzano l’attenzione sulla bellezza e il successo, si mostrano arroganti e invidiosi.
Nel secondo caso siamo in presenza di persone eccessivamente dedite al lavoro fino ad escludere altre attività come svaghi e amicizie, rigide, testarde, avare, con un focus esagerato sui dettagli e l’organizzazione fino a perdere di vista lo scopo dell’attività.
Sempre secondo Kohut, l’origine del perfezionismo patologico che sfocia nei suddetti disturbi di personalità, è da ricercarsi negli stili genitoriali e quindi nei modelli operativi interiorizzati dai soggetti perfezionisti. Infatti, i genitori dei soggetti perfezionisti si mostrano freddi, calcolatori, critici e considerano i figli come mezzi per promuovere la propria autostima, enfatizzando (a volte in modo poco realistico) i loro talenti, abilità e successi.
In seguito a questo stile genitoriale, il bambino (o adolescente) e quindi il futuro adulto può esperire un profondo senso di vergogna per ogni manchevolezza.
Talvolta, il perfezionismo deriva dalle critiche eccessive o fuori luogo come reazione di sfida nei confronti di chi sottovaluta le proprie capacità o competenze, creando in questo modo un circolo vizioso di dipendenza dai giudizi altrui molto difficile da spezzare.
L’inganno della perfezione
Per quanto ognuno di noi sia consapevole che l’essere umano è incompleto per natura, la società in cui viviamo ci impone valori di benessere improntati sull’autoaffermazione e autorealizzazione professionale, sulla bellezza estetica, sulla competizione, sui risultati da raggiungere e in una parola sull’apparenza.
Ciò che è venuto a mancare è l’importanza di essere persone di valore, a favore di sembrare qualcuno che in realtà non siamo.
Basti pensare all’avvento prepotente dei social network: quello che conta è mostrare ad altri quanto sia bella e perfetta la nostra vita.
Scartiamo le foto in cui appare anche solo un difetto mentre diffondiamo solo quelle in cui la nostra immagine appare splendida agli occhi degli altri. In questo modo alimentiamo un circolo vizioso fatto di “spettacoli da guardare da lontano” privando ad altri la possibilità di conoscerci a fondo nella nostra autenticità (Debord, 2002).
Spettacolizzare la nostra vita significa mostrare un perfezionismo da guardare che svuota il nostro vero essere. Ed è proprio questo vuoto interiore che necessita di essere continuamente riempito, dando luogo a quel senso di “non è mai abbastanza” che sperimentano le persone eccessivamente perfezioniste.
Da un punto di vista più pratico, la ricerca spasmodica di perfezione, porta paradossalmente alla ripetizione di refusi ed errori.
Ad esempio, riscrivere 10 volte un messaggio prima di inviarlo, rileggere e correggere una relazione svariate volte, pensare che perdere due punti a un test sia un fallimento, genera nella mente un fenomeno paradosso che è quello di vedere sempre qualcosa che manca secondo un ciclo infinito, come se fosse ruota che gira a vuoto.
Quel messaggio non sarà mai perfetto, quella relazione presenterà sempre almeno un errore di battitura, e così per un tempo indefinito.
Nel 1978 due psicologhe americane (Clance, Imes 1978) pubblicarono uno studio in cui spiegavano come alcune persone di successo sentissero di non meritare veramente il plauso sociale, nonostante le reali competenze e capacità possedute.
Il termine coniato per questo particolare stato d’animo è sindrome dell’impostore, che pare colpisca più le donne degli uomini. Probabilmente, dinamiche familiari improntate sui ruoli di genere oppure a causa di una società altamente competitiva (ricordiamo che fino a circa un ventennio fa la carriera universitaria e professionale erano prerogativa quasi esclusiva del mondo maschile) hanno condotto le donne di successo a sottovalutare i propri meriti.
Le donne affette da sindrome dell’impostore riportano disturbi d’ansia, bassa autostima, senso di colpa, senso di inadeguatezza di ruolo, depressione e frustrazione a causa dell’incapacità di soddisfare gli standard auto-imposti.
Talvolta sono afflitte da una vera e propria fobia del successo e inseguimento di un perfezionismo auto-compensatorio.
I pensieri che percorrono la mente di queste persone tipicamente sono:
L’errore di valutazione di sé compiuto dalle persone realmente capaci e competenti non è altro che un equivoco che scaturisce da una distorsione cognitiva sulle capacità altrui (Dunning, Kruger 1999).
Questione di adattamento….
Secondo alcuni ricercatori universitari, il perfezionismo può essere utile all’adattamento sociale, soprattutto quando gli individui si prefiggono standard elevati.
Ad esempio, gli atleti e gli imprenditori grazie all’impegno assiduo, alle ambizioni e agli obiettivi che si pongono, riescono ad avere successo e a salire in alto nella scala sociale.
Per illustrare questa differenza riportiamo l’esempio di uno studente universitario convinto di dover prendere il massimo dei voti ad un particolare esame.
Lo studente si impegna al massimo dedicando anche parte delle ore notturne alla preparazione, privandosi per molti giorni di qualunque svago.
Alla fine supera l’esame brillantemente ma nei giorni seguenti si ritrova con l’umore depresso e idee suicidarie.
Cos’è successo? Lo studente ammette che l’eccellenza ottenuta all’esame era solo una dimostrazione di quanto in realtà fosse un fallimento “Se fossi stato perfetto, non avrei dovuto lavorare così tanto per ottenere quel risultato”.
Quello che si può notare da questo caso è che il perfezionismo ai fini adattivi difficilmente genera stati d’animo patologici in caso di fallimento e che ciò che si fa ha uno scopo ben preciso.
Migliorarsi; quando il fallimento genera distress, costernazione, attacchi d’ansia, rabbia e via dicendo non è più adattivo.
Inoltre, secondo le teorie evoluzioniste più moderne, aspirare al meglio è funzionale ai fini della sopravvivenza sia fisica che psicologica.
Infatti, ad esempio, impegnarsi in progetti finanziari vòlti a guadagnare di più, dà la possibilità all’individuo di alzare il proprio tenore di vita e vivere una vita più agiata e libera da gravi preoccupazioni.
Non solo, il guadagno che ne consegue può riguardare il riconoscimento sociale, il prestigio, la fama, tutto a riprova del valore personale percepito.
Il perfezionismo a tutti i costi non è come dare il meglio di sé.
La perfezione non ha niente a che vedere con la conquista e la crescita personale.
Gli adulti tendono ad essere molto critici nei confronti di se stessi, proprio per questo un primo passo da fare per superare il perfezionismo patologico è quello di sostitiare pensieri autocritici con affermazioni più realistiche e salutari. Ad esempio:
e così via.
Una buona idea sarebbe quella di ripetere quotidianamente più volte il giorno queste frasi affermative come fossero un mantra.
Un secondo passo può essere quello di cambiare prospettiva decentrandoti.
Ad esempio, se pensi di essere pigro solo perché riesci ad allenarti 1 ora invece di 2, prova a vedere la situazione con gli occhi di qualcun altro.
Probabilmente molte persone non penseranno che tu sia pigro (forse ti alleni 1 ora perché lavori molte ore al giorno, 1 ora al giorno fatta con costanza e regolarità nel tempo porterà dei buoni risultati, meglio 1 ora di niente e così via….)
Proprio come quando guardiamo un paesaggio dall’alto di una torre o da un aereo, non ci soffermiamo sui dettagli (le singole case, le auto parcheggiate, gli alberi ecc) ma lo ammiriamo nell’insieme.
I perfezionisti tendono a focalizzarsi sui dettagli, sulle piccole cose, perdendo di vista il quadro generale della situazione.
Sarebbe meglio chiedersi “importa davvero?” “anche se dovesse succedere qualcosa, posso sopravvivere?” “l’altro darà veramente importanza a questo dettaglio o valuterà il mio lavoro nell’insieme?”
Ad esempio decidere di studiare 3 ore al giorno invece di 5 e concedendoti la possibilità di prendere un voto basso solo 1 volta su 4 esami (il perfezionista si prefigge di non sbagliare mai).
Presentarsi ad un appuntamento con 10 minuti di ritardo, indossare un abito con una leggera scucitura su un fianco, dì alle persone che ti senti stanco (o qualunque altro stato d’animo che consideri una debolezza), quando pulisci la casa lascia un piccolo angolo disordinato….
Tutto ciò ti aiuterà gradualmente ad affrontare la paura di non essere perfetto e a capire che le manchevolezze (le imperfezioni) fanno parte del repertorio comportamentale umano.
SITOGRAFIA E BIBLIOGRAFIA
https://www.healthline.com/health/perfectionism#causes
https://www.benessere360.com/perfezionismo-patologico.html
https://www.anxietycanada.com/sites/default/files/Perfectionism.pdf
https://www.goodtherapy.org/learn-about-therapy/issues/perfectionism
http://www.paulineroseclance.com/pdf/ip_high_achieving_women.pdf
http://www.avaresearch.com/files/UnskilledAndUnawareOfIt.pdf (Dunning e Kruger)
Debord G. La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2001 (versione online)
Kring A.M. et al., Psicologia Clinica, Zanichelli 2013
Nicoletti R., Rumiati R. I processi cognitivi, Il Mulino 2006
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