In un mondo in cui per “valere” bisogna lavorare, produrre, dare il meglio di sé, non ci si rende conto che spesso, nel tentativo di raggiungere “la perfezione”, si corre un grande rischio quello di sviluppare quella che viene definita dipendenza da lavoro.
Negli ultimi anni si stanno sempre più diffondendo dipendenze patologiche con modalità di comportamento abusante in cui non è implicato l’uso di alcuna sostanza chimica (Lavanco, 2006), ne sono un esempio lo shopping compulsivo, la dipendenza dal sesso e la dipendenza dal lavoro. Purtroppo queste diventano dipendenze socialmente accettate: la moda e l’importanza dell’apparire, ci spinge ad acquistare indumenti ed oggetti di valore che probabilmente non utilizzeremo mai; per avere un posto di riconoscimento nella società aumentiamo le ore di lavoro per “essere sempre i primi” . Ma qual è il prezzo che il workaholic deve pagare per mantenere questo status?
Spence e Robinson nel 1992 definiscono il workaholic una persona <<estremamente dedita al lavoro, si sente costretta o spinta da pressioni interne a lavorare, ed è poco appagata da esso>>. Sembrerebbe paradossale quello che emerge da questa definizione, ma il dipendente dal lavoro più lavora e più si sente insoddisfatto da quello che fa. Questa assuefazione (si intende con questo termine la diminuzione progressiva dell’effetto della droga dopo le prime assunzioni; da qui la necessità di aumentare la dose per sentirne pienamente l’effetto) è la stessa provata dal tossicodipendente. Il lavoro diventa “la droga” che permette alla persona di proteggersi dall’esperire emozioni e il mezzo attraverso cui può costruire un’immagine positiva di sé.
Alla base della dipendenza vi è un disturbo ossessivo-compulsivo: il pensiero rivolto costantemente al lavoro, permette alla persona di mascherare stati emotivi intensi e ad avere un “apparente” controllo sulla propria vita mascherando bassa autostima, caos interno e insicurezza. Il lavoro diventa quindi l’unico modo per attestare il proprio valore, e il senso di superiorità rispetto ai propri colleghi e familiari aiuta questa “precaria” autostima.
Robinson (1998) individua alcune forme di pensiero e stile cognitivo rigido:
La persona dipendente spesso non si accorge che il suo comportamento è smisurato e diventa quindi difficile aiutarlo ad aiutarsi.
Come riconoscere se un nostro familiare soffre di work-addiction? E’ possibile prevenirla nei bambini?
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