Effetto Dunning-Kruger: come fronteggiarlo - Psicologa Milano
Effetto Dunning-Kruger

Effetto Dunning-Kruger

Il caso di Rebecca

“Ho 48 anni, sposata da 15 e con due figli. Ho sempre avuto un brutto rapporto con mia madre, a malapena ci teniamo in contatto anche se viviamo in città diverse. Una volta durante un litigio, presa dall’esasperazione, ho perso le staffe e le ho dato uno schiaffo. In seguito ai nostri conflitti, mi sono recata più volte da uno psicologo perché mi aiutasse a capire certe cose e a come comportarmi. Sono infermiera e sono abituata a lavorare con le persone bisognose e malate, le persone che mi conoscono mi hanno sempre definita dolce e timida, e in un certo senso anch’io sento di esserlo, almeno credo. Poi un giorno è successa un fatto. Ho sentito la mia vicina di casa, qualche anno più giovane di me, che litigava con la nonna anziana, l’ho sentita urlare e non mi piacque. Cominciai a provare risentimento per lei, io conoscevo bene la sua nonna, o almeno, credevo di conoscerla. Per qualche giorno mi sono tenuta tutto dentro finché una mattina, la incontrai in cortile e impulsivamente l’ho aggredita a parole offendendola, dicendole che avevo sentito le sue urla. La vicina si mise a piangere e andò via, da quel giorno non ci siamo più salutate. Successivamente, mio marito mi fece notare che avevo sbagliato e che avevo fatto una cosa brutta. Mi disse che non sapendo quali fossero i motivi, non dovevo aggredirla e offenderla in quel modo. Cominciai a sentirmi a disagio, quando la incontravo non volevo guardarla in faccia, ma non avevo comunque intenzione (o il coraggio, non lo so) di fermarla e dirle che mi dispiaceva. Non riesco a darmi pace, non so cosa sia la cosa più giusta.”

Il fatto raccontato da Rebecca è un palese esempio di dissonanza cognitiva. Il suo comportamento non è stato in linea con quello che ha sempre pensato di se stessa. Il suo non darsi pace deriva proprio dalla discrepanza tra le credenze (o la conoscenza) di sé e le sue azioni.

L’AUTOPERCEZIONE

Ciò che una persona pensa di sé in un dato momento (autopercezione) è come una persona tra due fuochi. Infatti, l’autopercezione si costituisce con le pressioni che arrivano sia dall’interno che dall’ambiente. Inoltre, anche le aspettative che gli altri significativi (genitori, partner ecc) si fanno su di noi, hanno un peso in termini di chi dovremmo essere. Da questo punto di vista, chi siamo noi, si riferisce a chi eravamo, chi siamo ora e chi dovremmo essere. In quali modi possiamo conoscere noi stessi?
Un’importante fonte di conoscenza di sé ce la fornisce l’introspezione, che però qualche volta può portare a una visione ingannevole di noi stessi. Ad esempio, se con un atto introspettivo riusciamo a definire il nostro livello di autostima, chi ci dice che certe qualità non vengano amplificate?
Un altro modo per conoscere noi stessi è quello di osservare i nostri comportamenti, proprio come facciamo con gli altri. In base a credenze personali, modelli di riferimento e cultura, diamo un significato ai nostri comportamenti.

L’autopercezione è quindi una modalità di acquisizione di informazione su se stessi. E’ stato dimostrato che quando l’immagine che abbiamo di noi stessi è chiara, i comportamenti che eseguiremo in una data situazione possono fornirci preziose informazioni circa le nostre motivazioni e probabili capacità.

E’ una sorta di monitoraggio dei nostri comportamenti al fine di capire se stiamo facendo bene o male: pensiamo al caso in cui volessimo capire se abbiamo fatto la scelta giusta con il corso di laurea. Ripercorreremo nella nostra mentre tutti i comportamenti che adottiamo quando si studia…in questo modo ci faremo un’idea sulla riuscita o meno. Tuttavia, finché le esplorazioni di sé rimangono all’interno di noi, la motivazione all’attività potrebbe rimanere elevata. Se i nostri successi vengono spesso premiati dall’esterno, non si aggiungerebbe nulla di nuovo alla motivazione interiore e di conseguenza diminuirebbe la gratificazione che se ne trae.

Quindi più episodi positivi e di conferma rievochiamo, più che saremo convinti di aver fatto la scelta giusta; se gli incentivi esterni diventano troppo rilevanti, a parità di impegno nell’attività, la soddisfazione rimane bassa.

Facciamo un po’ di storia

Festinger sostiene anche che un’altra importante fonte di conoscenza di sé è il confronto sociale. Infatti il significato che diamo ad un risultato raggiunto cambia a seconda del risultato ottenuto dagli altri in una stessa prova o in uno stesso lavoro. Naturalmente, più le persone con cui ci confrontiamo sono simili (o almeno così percepite), più che il confronto diventa illuminante su noi stessi. Tuttavia, vi sono persone a cui non interessa sapere granché circa il proprio reale valore in una determinata attività. Infatti preferiscono cullarsi nell’idea che la loro bravura sia degna di nota anche se di fatto non lo è. Questa è chiaramente una strategia di innalzamento del sé (Castelli, 2004), finalizzata a ridimensionare ai propri occhi le proprie caratteristiche e apparire in buona luce, e anche per alimentare l’ottimismo.

La dominanza dello schema di sé nei processi di pensiero ci fa da guida nella ricognizione del mondo sociale in cui siamo immersi. Non sempre abbiamo bisogno di auto-accrescere la nostra immagine.

La psicologia sociale cognitiva ha infatti dimostrato che anche i nostri aspetti negativi sono colonne portanti della rappresentazione di noi stessi e per una questione di coerenza tendiamo a preservarla.

Uno studio condotto da Swann e Read nel 1981 ha messo in luce come persone che hanno una concezione alta o bassa di sé circa una determinata caratteristica (quanto mi reputo simpatico? Socievole? Competente?), si impegnano nel mantenerla soprattutto quando sanno che un’altra persona (partner, amico, collega ecc) ne ha una completamente opposta.

Questo fenomeno succede anche se la concezione di sé è negativa. Sembra che nella nostra mente vi sia un meccanismo che tende alla coerenza delle rappresentazioni di sé, e da questo punto di vista il nostro parere (come ci sentiamo) scavalca di gran lunga il giudizio altrui. Un fenomeno simile lo riscontriamo anche negli stupratori: “è la donna che provoca, quindi se lo merita” oppure nei bulli “chi si crede di essere quella che fa tanto la perfettina?”. Ogni giustificazione mira alla preservazione di un’immagine giusta di sé attribuendo la causa del comportamento scorretto all’esterno.

Non tutti, come hanno brillantemente dimostrato Dunning e Kruger hanno autoconsapevolezza del proprio valore. Pare che molte persone, nella valutazione di sé operino un vero e proprio autoinganno costruendosi autorappresentazioni compiacenti e di comodo. Il più delle volte, la percezione di valere meno si trova a livello subcosciente: in parte vi è l’intenzione di proteggere l’autostima a tutti i costi, anche al costo di screditare qualcun’altro; in questo caso è importante riscuotere successo dall’esterno (che importa se non è vero, l’importante è ottenere qualcosa); in parte vi è un’erronea valutazione di sé che dipende dal fatto che se mancano realmente certe abilità, mancano anche i meccanismi cognitivi che permettono di rendersene conto!

La tattica dello struzzo

Dall’autoconsapevolezza deriva un’importante emozione che alcuni psicologi definiscono “speciale”: la vergogna. Castelfranchi e Poggi (1988) descrivono “la vergogna (da smascheramento) come l’esperienza penosa che segue all’insuccesso nello scopo di presentare una buona immagine di sé agli altri e/o a se stessi.

Da un punto di vista cognitivo l’emozione della vergogna, è un’emozione dell’autoconsapevolezza dal momento in cui il giudizio è rivolto su di sé e presuppone un atto di presa di responsabilità. Ci si può vergognare di molte cose: ceto sociale, status economico, famiglia di appartenenza, a volte ci vergogniamo anche di vergognarci. Infatti la condizione necessaria affinché si provi quest’emozione è l’esposizione agli sguardi altrui, mentre il tratto comune a tutte le situazioni umilianti è la presa di coscienza della propria impotenza, debolezze, difetti, incapacità così come dello smascheramento rispetto ad azioni immorali.

Come ha fatto notare la psicologa Tangney, al di là della presenza del pubblico, anche la vergogna davanti a se stessi può schiacciare come un macigno l’animo di una persona. Ci si vergogna davanti agli altri perché ci si vergogna davanti a noi stessi. Questo meccanismo in psicoanalisi viene definito identificazione proiettiva: io attribuisco ad altri i miei pensieri e le mie emozioni, e allo stesso tempo mi identifico con questi altri, come se mi guardassi attraverso i loro occhi “mi sembra che tutti ce l’abbiano con me!” oppure anche solo immaginando che qualcuno ce l’abbia con noi “chissà cosa penserebbe se mi vedesse!”. Siamo ipercoscienti della presenza dell’altro, sia reale che immaginata.

La vergogna ha quindi sia una funzione protettiva che costitutiva della propria identità. Ad esempio il perfezionismo ha lo scopo (più o meno inconscio) di proteggerci da qualche umiliazione o da un senso di colpa. “se non c’è nulla da ridire non c’è nulla da temere”. Poi vi è l’atteggiamento di compiacenza, non scontentare gli altri per non ottenere un rifiuto che potrebbe essere fonte di profonda vergogna e sofferenza. Frequenti umiliazioni subite (anche in età infantile oppure durante l’adolescenza) possono portare certi individui a sviluppare un atteggiamento compensatorio quasi rivendicativo che è conosciuto comunemente come narcisismo: fantasie grandiose di riuscita oppure messa in atto di comportamenti che mirano al trionfo, sminuire gli altri oppure un bisogno di potere attraverso un’identificazione immaginaria con figure importanti e autorevoli (politici, attori ecc).

Proprio come fanno gli struzzi che nascondono la testa sotto terra, non vedono chi li sta guardando. La rinuncia a guardare negli occhi qualcuno per la vergogna è pur sempre un segno di sottomissione.

Che fare?

L’effetto Dunning-Kruger può colpire chiunque. Sicuramente l’autoconsapevolezza e la capacità metacognitiva (riflettere sui propri processi di pensiero e abilità) sono due requisiti importanti. Per ritenermi un bravo scrittore, devo possedere delle buone competenze circa la composizione dei testi, le figure retoriche, la punteggiatura, mettermi nei panni del pubblico che legge e così via. Se queste abilità scarseggiano, è difficile che ci possa essere una consapevolezza e un lavoro di revisione critica del proprio lavoro.

Pensiamo ad esempio a tutti coloro che non essendo molto istruiti, in età adulta omettono le H del verbo avere…ne sono consapevoli? No. Se però queste persone riescono a ottenere per circostanze fortuite un posto di lavoro al di sopra delle loro capacità, tenderanno a sovrastimarsi e criticheranno spesso il lavoro degli altri.

Succede anche il contrario. Persone competenti e intelligenti spesso sono piene di dubbi e incertezze sulla riuscita di un lavoro. Perché? La risposta è nella capacità metacognitiva di queste persone di rendersi conto che si può sempre migliorare. Infatti, per queste persone vi sono tre cose veramente importanti:

  • continuare a studiare e fare pratica. Infatti, non si smette mai di imparare.
  • Chiedere agli altri un parere su come stanno lavorando ( o in generale se stanno facendo bene) e ascoltare i consigli
  • chiedersi quanto veramente si sa di qualcosa. Sicuri che non ci sia altro da sapere?

Esercitarsi sull’autoconsapevolezza può essere un prezioso aiuto per essere in sintonia con se stessi e con gli altri. Esistono alcune pratiche che permettono questo lavoro. Una di queste è porsi delle domande sul proprio lavoro e sulla propria conoscenza, fare ricerca, informarsi e confrontarsi con altri esperti; la seconda è farsi aiutare da un coach o da uno psicologo (così come da un insegnante o un istruttore) a scoprire i reali punti di forza e i punti su cui prestare più attenzione. Inoltre anche la pratica continua permette alle persone di prendere consapevolezza del proprio operato e quando opportuno intervenire.

In fin dei conti, non esiste la perfezione, ma la versione migliore di noi stessi.

FONTI

Simona Lauri
Simona Lauri
Simona Lauri
Psicologa e psicoterapeuta breve strategica. Oltre che offrire interventi di psicoterapia breve, mi occupo di coaching alimentare e sportivo.

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